I morsi dell’Anima

I morsi dell’Anima

CENTRO STUDI PSICOSOMATICA

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PSICOTERAPIA GESTALT ANALITICA

XIII Corso Roma

CASO CLINICO DI FINE IV ANNO (2011/2012):

Allieva : Zaira Cestari

Relatore: Stefano Carta Correlatrice: Giovanna Larghi

INDICE

Cap. 1: Il primo contatto e il primo colloquio con Livia Pag.3

(Cap.2: La storia di Livia ) Pag.7

Cap.3: Il disagio e la relazione analitica Pag.10

Cap.4: L’inquadramento clinico e gli obiettivi terapeutici Pag.30

Cap. 5: Riflessioni del terapeuta Pag.37

Bibliografia e Sitografia Pag.39

Il primo contatto e il primo colloquio con Livia

Livia mi chiamò il pomeriggio di giovedì 24 marzo 2011, dicendomi di aver trovato una brochure di presentazione per un gruppo di sensibilizzazione al processo corporeo dove c’era il mio nome e quello di una mia collega. Mi informò di essere interessata a partecipare al gruppo dal momento che da tempo si interessava di bioenergetica.

Le spiegai che non si trattava di un gruppo di bioenergetica ma che il lavoro che sarebbe stato fatto avrebbe presentato degli elementi in comune con quella disciplina. Mi sottolineò allora che la presentazione scritta nella brochure le aveva fatto pensare che il gruppo in questione fosse quello che stava cercando.

Le ricordai dunque che l’iscrizione prevedeva un primo colloquio individuale gratuito e che avrebbe potuto scegliere se farlo con me a Pisa o con la collega a Firenze, dal momento che entrambe avremmo condotto il gruppo. Con un tono divertito mi disse di aver fatto bene a chiamare me istintivamente, dal momento che anche lei viveva a Pisa. Immediatamente avvertii un interesse intellettuale nei confronti di questa ragazza, sentendomi gratificata dal rappresentarmi come l’oggetto di una scelta intuitiva.

Fissammo l’appuntamento per il martedì mattina. Nonostante avessi precisato che eventuali disdette avrebbero dovuto essere comunicate almeno due giorni prima, fu di lunedì serache mi chiamò per disdire a causa di imprevisti con il lavoro. Mi chiese di fissare per un’altra data e ci accordammo per la settimana successiva.

Terminata la chiamata sentii molto fastidio e frustrazione. Pensai che l’opzione della gratuità del colloquio poteva costituire una scusa per infrangere delle regole, ma capii anche di non aver fatto trapelare nella telefonata nulla a riguardo di scorrettezza o del fatto che avesse trasgredito, proprio per la confusione che avvertivo in merito all’importanza del colloquio, seppur gratuito. Capii di dover lavorare personalmente sul porre le regole, sul sentirmi un autorità. D’altronde prima del colloquio iniziale il contratto terapeutico non è ancora stato stipulato, e il margine di probabilità che un paziente non si presenti al primo colloquio è alta. Come mai nonostante questa consapevolezza mi sentivo così minata nel mio ruolo? Che significato poteva assumere il sentirmi manipolata?

Questa eventuale futura cliente mi aveva già messo in difficoltà. Mi domandai quanto peso avessero i miei vissuti per farmi percepire manipolata, quanto fossi stata poco chiara e direttiva nel comunicare le regole degli incontri, o se ci fosse una parte manipolativa di Livia che aveva agito in questa vicenda.

La rilettura della brochure mi aiutò nel trovare una chiave per dare un senso ai miei quesiti e alle mie sensazioni ambivalenti. Nel volantino in questione tra gli obiettivi esplicitati era sottolineato che il Processo Corporeo può aiutare a scaricare rabbia e a trovare una via espressiva al proprio dolore. In quella breve telefonata avevo sentito rabbia che però non mi ero sentita di esprimere, il che cozzava con il fatto che il tono di Livia veicolava un vissuto di assoluta tranquillità per la sua disdetta: era il suo cinismo ad avermi dato fastidio, non tanto la sua presunta scorrettezza.

Questo primo contatto con Livia mi preannunciò la misura della difficoltà che avrei incontrato a trovare una sintonia affettiva con lei.

Giunto il momento del nostro primo colloquio mi sentii tesa, ma nello stesso tempo anche incuriosita e decisa ad aprirmi alla possibilità di attribuire diversi significati a quella tensione.

Livia si presentò puntuale ed educata. Entrata nella stanza si tolse giacca e borsa con una modalità che comunicava forza, sicurezza e decisione. La prima sensazione che avvertii in sua presenza fu di profonda dolcezza.

Livia è una ragazza alta e slanciata. Aveva 24 anni al momento del nostro primo incontro. Era vestita alla moda etnica, con stile ricercato e minuzioso. Mi colpirono subito i colori che associavo a immagini in cui impera l’elemento terra. Veste spesso di colori naturali sul verde e sul marrone. La sua carnagione è molto chiara e fa da sfondo a occhi scuri ed espressivi, come i capelli, anch’essi scuri e arricciati, che portava fermati sulla nuca da un bastoncino di legno.

Dopo che si fu seduta i suoi movimenti, fino a quel momento decisi e sicuri, misero in risalto il contrasto con uno sguardo d’attesa e un silenzio persistente. Mi parve di sentire la sua paura e il suo imbarazzo che, come in un circolo vizioso, aumentavano in risposta al suo impasse emotivo e di azione. Livia mi parve totalmente bloccata. Il suo corpo era immobile, rigido, come se contenesse qualcosa che sentiva di non potersi permettere.

Avvertii in lei una domanda implicita di essere completamente presa in carico, una richiesta che cercai di accogliere, ma dal momento che il silenzio comparve nei primi minuti della prima seduta, sentii la necessità di prendere in considerazione anche il piano esplicito, porgendole delle domande che però ruppero quel silenzio che già sentivo come molto comunicativo.

Mi rispose riconfermando il suo interesse a fare pratica di ciò che da mesi stava studiando. Approfondii l’analisi della domanda chiedendole il motivo delle sue letture di Bioenergetica. Mi disse che si era laureata in tecniche erboristiche e che credeva nei metodi di cura naturali, tra cui la parte della psicologia che prende in considerazione il corpo. Aggiunse di aver studiato danza per 12 anni (dai 5 ai 17 anni) ma che nonostante danzare la facesse sentire bene non l’aveva aiutata a gestire il suo problema. Dopo questa frase ritornò in un silenzio barricato dal suo sguardo perentorio.

Intuii che Livia stava cercando di custodire un segreto, cercando un sistema di autocura grazie al quale non avrebbe dovuto chiedere aiuto, ma una parte di lei, sotto la soglia della consapevolezza, desiderava affidarsi e lasciarsi andare alla guida di una figura di riferimento. Quella frase aveva tradito la sua difesa. Ipotizzai che due parti di lei stavano entrando in un conflitto, probabilmente lo stesso conflitto che l’aveva portata a sentire l’esigenza di uscire da una situazione di stallo e cercare una forma di psicoterapia.

Accorgendomi che fino a quel momento aveva parlato più la Livia controllante, decisi di voler dare spazio anche a quel suo tentativo sfuggente di aprire uno spazio comunicativo in più.

Le chiesi che cosa intendesse per “problema”. Con sguardo impaurito ma con voce decisa e con un ritmo molto veloce, come per sfuggire a delle forti emozioni, lei disse di soffrire di bulimia da molti anni. Dopo un breve silenzio aggiunse, questa volta con una voce più emozionata, che sentiva in quel periodo di non poter più sopportare il suo comportamento. Disse di non sapere se il problema fosse peggiorato o meno, ma sentiva che le si stava rovinando il metabolismo e l’aspetto fisico, nonché il senso di benessere quotidiano.

Al termine dell’ultima frase, guardandomi con un sorriso che tradiva una grande tensione, mi chiese: “che cosa posso fare? Mi può aiutare?”, dunque chinò il viso tra le mani, emettendo una risata che si trasformò in un pianto che cercava di trattenere con un tale sforzo da farla tremare tutta.

Una trentina di secondi dopo i tremori cessarono, le lacrime si seccarono, e lei ritornò a guardarmi sorridendo con lo sguardo richiedente e interrogante, come se quel pianto non fosse mai avvenuto. Avvertii il suo sguardo come pesante; sentii il bisogno di darle un consiglio, di abbracciarla e rassicurarla, come se non riuscissi a reggere quella sua richiesta silenziosa ma pressante. Cercai di appellarmi a un senso di onnipotenza ed entrai invece in contatto con il suo opposto, una sensazione d’impotenza che mi permise di sentire tanto la sua disperazione quanto il suo bisogno di essere vista nella sua complessità intrisa di fragilità e risorse: da una parte un’adulta forte e sicura, dall’altra semplicemente “Livia”.

Scelsi il silenzio. In questa seduta c’erano già stati momenti di muti scambi di sguardi. Se prima l’atmosfera era dominata dal rispetto, in quel momento sentii di essere pronta ad accoglierla. Intuii però il suo disagio in questo mio modo di pormi, come se quella che io percepivo come accoglienza fosse per lei estranea.

Sentendo la sua tensione crescere sempre più, il mio intervento e la mia presenza virarono verso il contenimento. Le chiesi che cosa stesse provando, al fine di comunicarle poi il mio riconoscimento del suo dolore. Mi rispose aggirando la domanda ma tradendo forse il suo primo intento: “credo che non mi serva un gruppo dove si faccia processo corporeo, ma una psicoterapia”. Avvertii questa affermazione come pregna di motivazione a lavorare su di sé, ma anche carica di paure e resistenze , comunque significative e da rispettare. Forse aveva intuito la necessità di aprirsi, ma anche la difficoltà che aveva nel farlo e che sarebbe aumentata in un gruppo composto da più membri.

Le chiesi che cosa l’aveva fatta cambiare idea e successivamente che cosa si aspettasse da una psicoterapia che un gruppo di processo corporeo non poteva darle. Mi disse che voleva capire sé stessa e stare meglio, e che una psicoterapia individuale le dava l’idea di essere “più approfondita”. In quel momento mi sovvenne l’immagine della stanza della terapia individuale come se fosse un intimo fasciatoio, dove io l’avrei nutrita, svestita, lavata e rivestita, mentre il gruppo era rappresentato come un insieme di bambini di una scuola d’infanzia dove io ero l’educatrice.

Queste immagini, insieme alle impressioni percepite e “raccolte” durante il colloquio, mi orientarono a ipotizzare che la sua domanda implicita fosse che mi occupassi di lei, che la vedessi nel suo lato debole e malato e l’aiutassi in questo modo a sentire le sue risorse. Dalla pesantezza iniziale iniziai ad avvertire gratificazione e una sensazione di disponibilità: essere scelta da una ragazza poco più giovane di me che mi portava un disagio legato all’alimentazione e pensare di poter sostenere questo carico rappresentava per me un’assunzione di responsabilità nuova che mi raffigurai come un rituale che mi avrebbe permesso di sancire il passaggio da una fase passiva della mia vita ad una attiva, dall’essere la ferita bisognosa di cure all’essere la guaritrice, sebbene ancora ferita.

Durante il racconto dei temi che le chiesi di approfondire, l’ipotesi esposta qualche riga più in su sembrava prendere sempre più forma, arricchendosi di ulteriori sfumature. Emerse come Livia fino a quel momento avesse vissuto lottando contro una rabbia che le cresceva dentro, contro una confusione che minacciava di farle perdere una strada alla quale si era aggrappata con grandi sforzi e buoni risultati, e quello che ora mi portava era una grande stanchezza e un estremo bisogno di af-fidarsi.

Il suo eloquio, nonostante fosse preciso, era scarso di dettagli sia di tipo informativo su contenuti, sia di tipo emotivo. Nonostante i suoi pensieri avessero una struttura chiara e limpida, il suo racconto non lasciava trapelare nessi cronologici e qualità affettive nei fatti e nelle relazioni.

Chiusi la seduta restituendole l’ipotesi che sentisse tanta stanchezza e fatica, e che avvertisse la necessità di fidarsi per affrontare ciò che appunto la stancava di più.

Quella stessa stanchezza sembrava “contaminarmi”, ma questa sensazione mi portò anche in contatto con la curiosità per quello che poteva sorgere da una possibile rinascita delle forze creative e vitali di Livia. Le restituii quindi anche la speranza che probabilmente l’aveva portata a cercare una terapia.

Accolsi la sua richiesta di vagliare la possibilità di una psicoterapia individuale rispondendole che ancora non l’avevo conosciuta abbastanza, e che ci sarebbero voluti altri 2 o 3 colloqui perché potessi capire se e in che modo la potessi aiutare, e perché lei potesse avere più chiara la sua scelta. Successivamente la informai sulle regole del setting e sul mio compenso, che fissai più basso del solito.

Una volta accordata la tariffa e il successivo appuntamento, mi salì un senso di inquietudine, assieme al forte bisogno di terminare la seduta. Che cosa mi aveva spinto a fare quella scelta del prezzo? Che cosa rappresentava? Che cosa non avevo riconosciuto in me fino al punto da fare un agito del genere? Mentre queste domande mi stavano distogliendo dalla relazione con Livia proprio negli ultimi minuti, mi accorsi che con la sua postura ritta, con le braccia conserte, col suo sguardo perentorio e con quell’atteggiamento cinico nel prendere la borsa, alzarsi e salutarmi, sembrava volesse veicolarmi un messaggio di potenza e di forza. Sentii che proprio questo atteggiamento di prepotenza mi faceva oscillare tra il fascino e la ricerca di una distanza emotiva. La necessità di mettere un confine era ora più netta: quanto io mi sentivo assoggettata da lei tanto da raffigurarmela come potente e quanto faceva parte di una sua strategia inconscia che l’aveva aiutata fino a quel momento? Quanto mi voleva mettere a distanza e quanto la volevo lontana da me?

Chiusi la seduta con un senso di frustrazione, inquietudine e confusione.

L’avrei rivista la settimana successiva. Nell’attesa vissi il conflitto tra il prefigurarmi l’ipotetica scelta di non accettarla in terapia e il non voler decidere in tal senso per il mio stadio iniziale di carriera che non mi incoraggiava a rifiutare un’eventuale paziente, tra il desiderio di sfidarmi ad affrontare un altro ostacolo nella mia vita e la vaga percezione di quella dolcezza percepita nei minuti iniziali del primo colloquio.

Il disagio e la relazione analitica

Alla seconda seduta, una volta deciso di mettere in figura il suo bisogno di affidarsi, Livia mi descrisse come suo problema principale il non sopportarsi più per le sue condotte alimentari che la facevano sentire stanca, sciupata, sconvolta e immersa nel caos.

Su mia sollecitazione, al fine di arricchire il contesto del suo vissuto attuale, mi raccontò la storia del suo disturbo nel comportamento alimentare.

Verso i 17 anni e mezzo la madre la portò da un endocrinologo perché le mancavano le mestruazioni da quasi sei mesi, dopo averle avute regolari dai 13 anni.

Livia si ricordò che il medico “scandalizzato” disse alla madre di essere stupito che gli parlasse di solo di amenorrea, quando era evidente dalla magrezza della figlia che questa “non stesse ingurgitando da tempo niente più che qualche sorso d’acqua”, consigliandole di recarsi da uno psichiatra per curare la chiara anoressia della figlia. Mi raccontò che appena uscirono dall’ambulatorio la madre le chiese se sapeva qualcosa di quella “storia del non mangiare”, e lei le promise prontamente di tornare a mangiare. Da allora la madre la obbligò a finire i piatti che lei vedeva “immensi”, salvo poi eliminare subito dopo il cibo ingurgitato vomitando di nascosto. Da allora, fino a quando non decise di chiamarmi, non chiese mai aiuto per il suo disturbo e nessuno del suo nucleo famigliare originario, citò più il suo disagio.

A questo punto del racconto notai nella postura di Livia molta tensione che contrastava con l’espressione del viso e del tono di voce che non lasciavano trapelare nessuna sfumatura emotiva, quasi fossero stati desensibilizzati, come per non entrare in contatto con le forti emozioni intorno alle quali poteva essersi costellato questo tema.

In quel momento percepii una forte tensione nel mio stesso corpo, che aumentò nella misura in cui sentivo Livia affettivamente scissa da ciò che stava raccontando. Scelsi di fare un primo intervento che considerai vitale per la creazione dell’alleanza terapeutica, e che in quell’istante reputai necessario per iniziare ad aiutarla a riconnettersi con le sue emozioni, ad ancorarsi al corpo e a percepire il piano concreto nel qui ed ora. Mi inserii nel suo flusso del discorso chiedendole qual era l’emozione che avvertiva in quel momento. Livia mi guardò stupita, e senza soffermarsi ripeté la mia domanda con un tono e un’espressione che mi parve intrisa di cinismo: “cosa sento????” “boh, ora sto bene”.

Restai in silenzio, lasciando spazio al tempo, cercando forse io di rispondere a quella domanda. Sentii crescere dolore, un dolore che probabilmente ci accomunava, ma che in me fu riattivato e forse rinnovato dal suo racconto.

Passò circa un minuto che percepii come molto lungo, quando Livia scoppiò in un pianto nervoso, inconsolabile, ma che, come nella prima seduta, placò improvvisamente assumendo una postura, un atteggiamento, un colorito e una limpidezza degli occhi, come a comunicare a sé e a me che quel pianto e quel dolore non c’erano mai stati.

Restai di nuovo in silenzio, sentii il suo sguardo imbarazzato, che pareva implorarmi di dire qualcosa. Decisi di dare spazio e legittimare con attimi di silenzio quel pianto e quel dolore che tentava di negare, e di rimandarle il suo imbarazzo chiedendole di nuovo come si sentisse in quel momento, se era cambiato qualcosa rispetto a prima. Questa volta mi rispose, riconobbe della rabbia. E proseguì parlandomi della stupidità di sua madre, di come non le fosse mai piaciuta e di come anzi la odiasse. Il suo racconto mi giunse come un monologo, come se l’intenzione del racconto non fosse quello di affidarsi attraverso un tentativo di esprimere vissuti ed emozioni rinnegate e dolorose. A ogni domanda rispondeva rimandandomi al suo odio e al suo disprezzo per la madre, e come questo fosse legittimo visto la sua “superficialità”. In quel frangente sentii come il sottolineare questo odio potesse essere funzionale a impedire l’apertura di un possibile spazio di condivisione con me, di riflessione, e una resistenza all’affidarsi e al cambiamento.

In seguito a una mia domanda mi confermò che l’odio non era per lei qualcosa di nuovo. Emerse poi con il tempo come questa emozione fosse l’unica modalità relazionale in cui potesse contattare vissuti negativi. Sia dal suo racconto che in seduta con me, emerse che la rabbia era per lei qualcosa di non riconosciuto se non nella forma estrema dell’odio e del disprezzo. Sentivo spesso come Livia mettesse in discussione o ridicolizzasse la legittimità di ciò che proponevo o affermavo. Tutto ciò, oltre a darmi informazioni su di lei, mi portò a percepire la linea sottile tra il mio essere terapeuta e l’essere una donna implicata in una sfida con un’altra donna.

Sentivo che l’ostilità che aleggiava nella relazione era strettamente legata a un dolore atroce, che Livia non riusciva a contattare, e che, come mi accorsi poi, io stessa temevo. Percepivo quanto fosse importante che Livia si fidasse di me, affinché lei potesse avvicinarsi a quel dolore, e quanto fosse altrettanto importante che io reggessi sotto ai suoi attacchi distruttivi, per rendere possibile la nascita di una relazione solida, basata sulla fiducia.

Nel corso dei colloqui immediatamente successivi cercai di indirizzare Livia verso il racconto della storia e del suo vissuto negli anni dell’adolescenza, con l’intento di arricchire il quadro del contesto familiare, e dei suoi rapporti con le figure più significative, in particolare di suo padre.

Livia stentava a parlare di quest’ultimo, e io intuii come per lei potesse rappresentare una figura fondamentale implicata in qualche modo nel suo disagio.

Decisi di rispettare per il momento questa sua resistenza a parlare della figura paterna, fin quando mi disse, in apparenza distrattamente, di come lui si comportasse spesso “da uomo freddo” ma che in realtà sapeva anche che le poteva essere complice, e “essere caldo”.

Le chiesi cosa intendeva per complice e con atteggiamento spensierato mi disse che lei da piccola, fino a una certa età, passava con il padre molto tempo libero: lui le aveva insegnato a cavalcare, la portava al mare, la accompagnava a danza e spesso si fermava a vederla, mentre il fratello stava a casa a far compagnia alla madre “che stava a lamentarsi”. Quando le chiesi di che cosa potesse lamentarsi la madre lei iniziò a elencarmi le sue “lagne” sui dolori fisici e sull’essere triste, sola, abbandonata.

A un certo punto Livia si interruppe come cercando di far luce su qualcosa affiorato tra i suoi ricordi. La vidi impaurita e tremante, e per la prima volta dall’inizio della terapia sentii che era entrata in contatto con il dolore e la tristezza, lasciandosi andare al momento presente e alla relazione. In quel frangente palpai la reale possibilità che Livia si potesse affidare a me, lasciandosi alle spalle, almeno nello spazio della terapia, maschere e difese.

Nel momento in cui riuscì a rimanere in contatto con le emozioni, mi raccontò lentamente, sempre cercando nella memoria, che un giorno di ritorno dalla scuola superiore, “quando ancora aveva giaccone e zaino sulle spalle”, sua madre le aveva detto che da quel giorno avrebbe smesso di andare a danza e a cavallo. Doveva dedicarsi solo allo studio perché era ormai prossima al diploma. Quando Livia aveva cercato di opporsi a quelle decisioni, la madre aveva aggiunto che doveva smetterla di farla star male, che ogni volta che Livia andava a danza o a cavallo lei stava sola e abbandonata a casa. Ne nacque una discussione che fu chiusa da un’ultima frase della madre che Livia mi ripeté singhiozzando: “lasciami tuo padre, è mio marito, mio!”.

Livia ricordò che dal quel momento aveva scelto di rifiutare più volte qualsiasi invito da parte del padre e come questi fosse poi diventato “freddo e distante” anche con lei.

Finito questo racconto vidi per la prima volta Livia rimanere intera in un silenzio denso e vivo: i suoi occhi erano lucidi, si abbracciava, non mi guardava esigendo una mia azione ma era là per sé, stava prestando per un istante attenzione a sé stessa.

Lavorammo poi sui vissuti relativi al ricordo di quest’evento. Inizialmente emersero sensazioni di rabbia verso la madre che pian piano lasciarono il posto a emozioni legate al senso di perdita, sensazioni di lutto: sentiva di aver perso il padre, e di aver rinunciato a quell’unica sensazione di calore che ricordasse di aver mai vissuto prima di conoscere Damiano. Poco dopo aggiunse, come in seguito a un insight, che forse aveva rinunciato anche alla danza per quello che le aveva detto la madre, mentre fino a quel momento aveva raccontato a tutti e a sé stessa di averla lasciata a causa dei problemi con l’alimentazione. Le chiesi allora se avesse smesso di nutrirsi in quel periodo. Ci pensò per qualche secondo, rispondendomi poi frettolosamente che probabilmente si, ma che l’anoressia-bulimia non era colpa di quella storia. Le chiesi allora se pensava a qualche altra causa e mi rispose con tono aggressivo e svalutativo che questo avrei dovuto saperlo io.

La sua frase mi arrivò come un attacco, ma avvertii di essere “rimasta intera” e come quelle parole, invece di provocarmi, mi avessero sottolineato, mettendomi empaticamente in contatto con la fatica che Livia stava provando nello stare su quella sedia cercando di rimanere in contatto con sé stessa, nonostante la sua motivazione conscia di fare una terapia.

Le rimandai che il mio interesse era per ciò che lei pensava e sentiva e che solo i suoi pensieri e le sue emozioni erano gli elementi entro cui si celavano le risposte che cercava.

Mi guardò con sguardo umile, tanto che mi sembrò di guardare una bambina indifesa. Sentì che qualcosa era successo, come se per un istante avesse tolto il vetro che la proteggeva e dietro al quale poteva sferrare attacchi, sicura di non essere colpita a sua volta. Quello sguardo era per me il segnale che in quel momento poteva aver sentito di potersi af-fidare.

Da quel giorno Livia iniziò a raccontarmi la sua vita e i suoi vissuti più spontaneamente rispetto ai colloqui precedenti in cui si interrompeva spesso per guardarmi come se mi stesse implorando di fare o dire qualcosa.

Nei colloqui successivi emerse il tema della competizione con il fratello. Livia mi descrisse quanto lui fosse brillante e intelligente, e come questo lo differenziasse molto da lei. Il tema con il fratello inaugurò un processo che portò Livia alla consapevolezza di come lei vivesse il confronto, il giudizio e le critiche. Ricordò di quanto la competizione le facesse vivere forti conflitti in famiglia, nella relazione di coppia, al lavoro e tra gli amici. Esplorare questo tema la mise in grado di sentire la confusione che viveva quando sentiva rabbia, che poi sfociava nella distruttività piacevole (l’abbuffata) verso sé stessa.

A una particolare seduta Livia sottolineò il fatto di volere profondamente che le persone a lei vicine riconoscessero e ammettessero anche i suoi difetti. Quel giorno Livia, nel parlarmi del suo iniziale risentimento verso il fratello per aver lasciato la brillante carriera universitaria e mentre iniziava a prendere forma la mia percezione che quell’amarezza non fosse sua, si interruppe per tacere improvvisamente. Io sentii interrotto anche il processo di formazione delle mie impressioni e domande. Mi sentii “colta con le mani nel sacco”, come se la parte attiva e indagatrice del mio ruolo di terapeuta spaventasse Livia.

Probabilmente colludendo e cercando di “scagionarmi” facendole sentire che ero lì per accoglierla, ma con l’obiettivo cosciente di non rimandare un eventuale lavoro sulla relazione terapeutica, le chiesi cosa le stava accadendo, per quale motivo avesse interrotto il suo eloquio. Si strinse nelle spalle e mi “confessò” che spesso aveva la sensazione che il mio sguardo cercasse in lei qualcosa di cupo. Lavorammo su questa sensazione, sollecitandola a trovare associazioni con “cupo”.

Livia riconobbe questa dimensione come una parte di sé profonda, importante e familiare. Riconobbe poi che questa “mia ricerca del cupo” la metteva in imbarazzo, facendole sentire calore al viso. Ricondusse tale imbarazzo al timore di essere svelata, e nello stesso tempo attribuì al calore sensazioni di accettazione e di essere vista.

Livia quel giorno se ne andò dalla seduta con una sensazione di confusione, ma accadde che, diversamente dai colloqui precedenti, non indugiò seduta sulla sedia dopo la chiusura del colloquio. Si alzò subito, mi pagò e mi salutò guardandomi negli occhi. Fu la prima volta in cui, una volta rimasta sola nella stanza, non avvertii una sottile sensazione di insoddisfazione e di inadeguatezza. Sentii che era stato fatto un ulteriore passo nella relazione terapeutica, nella direzione della fiducia e dell’apertura. Mi ero permessa di vedere Livia e Livia si era permessa di comunicarmi qualcosa di cui ancora non aveva pensiero, affidandosi alla relazione, e permettendosi così di essere e di sentirsi, in parte, vista.

Passarono diverse sedute in cui mi portò vari temi di natura relazionale sul lavoro, con Damiano e talvolta con la madre, senza parlarmi delle sue condotte alimentari. Seguivo il flusso del suo processo rispettando la sua nuova necessità di occuparsi del proprio vivere i rapporti e della sua modalità di stare in relazione.

Emerse il tema dei confini e potemmo lavorare sulla sua tendenza a rimanere seduta alla fine dei colloqui nonostante io le comunicassi la fine del nostro tempo disponibile (contemporaneamente lavorai personalmente sulla mia fatica a confinarmi che si manifestava nella mia difficoltà a mandarla via senza sentirmi in colpa). Lavorammo cercando un nesso tra la sua difficoltà a reggere il silenzio e lo sguardo e tra la sua difficoltà ad andarsene. Emerse che in entrambe le situazioni avvertiva un bruciore allo sterno che associò all’incapacità di prendere decisioni, di prendere una posizione.

La sollecitai a immedesimarsi nel suo sterno per farlo parlare e, dopo diversi sforzi di immaginazione, mi disse che avvertiva il bruciore nel momento in cui succedeva qualcosa per cui non riusciva a reagire. Mi portò l’esempio di un episodio di bruciore avvertito qualche giorno precedente. Damiano, che da qualche mese si trovava a Messina per assistere il padre terminale, aveva deciso che una volta “libero” avrebbe cercato un buon lavoro ovunque. Aveva prospettato Londra o comunque qualche città del nord Europa. Livia in seduta riuscì a riconoscere che durante la telefonata con Damiano aveva percepito un bruciore e che non ribadì nulla al fidanzato. Grazie al lavoro della sedia bollente rappresentando lei e Damiano, riuscì a sentire la tristezza data dalla sensazione che la parte decisa e indipendente (rappresentata in questo esperimento da Damiano) non si prendesse cura della parte più bisognosa di lei. Tempo dopo riuscì a comunicare a Damiano che le dispiaceva che lui non avesse nemmeno pensato di mandare il curriculum in Toscana. Nelle sedute successive contattò anche la rabbia per la pretesa di Damiano che lei lo seguisse di nuovo.

Il sintomo del bruciore acquistò per lei un senso quando riconobbe un nesso tra la sua difficoltà a esprimere i bisogni, le pretese di Damiano nei suoi confronti, ma anche della madre e di qualche amica, e la necessità di assumersi la responsabilità di non voler esprimere i suoi desideri e le pretese che lei stessa metteva nelle relazioni (relative alle presa di decisioni, all’azione indipendente e all’autonomia). La consapevolezza di aver per molto tempo represso quella sua parte autonoma, quella parte che riconosceva i suoi bisogni e li sapeva ascoltare, scaturì in un lungo pianto.

Il tema toccato in queste sedute aprì molte prospettive e le fornì la possibilità di vedere nuove sfumature in molti piani della sua vita che prima percepiva piatti o insignificanti.

Rivisitò il tema delle amicizie parlandomi della sua tendenza a non chiedere appuntamento con gli amici e contemporaneamente a desiderare di essere cercata e invitata, fino talvolta a pretendere dentro di lei di essere chiamata, provando rabbia quando questo non accadeva.

Lavorammo sulla sua sensazione di nutrire il timore di non essere voluta perché si credeva noiosa, percependosi in tal modo quando utilizzava parole che non le appartenevano per coprire il silenzio.

Quando ritornò il tema del silenzio, Livia sentì dapprima un senso di vuoto, quindi un’emozione d’angoscia, da cui riconobbe di tentare spesso di sfuggire.

In una seduta di questo periodo arrivò distrutta e piangente, dicendo che la sera prima aveva fatto un’abbuffata grandiosa (aveva letteralmente svuotato le dispense della cucina in cui c’erano provviste per tre persone) per poi cercare come sempre di vomitare, cosa che non le era riuscita, adducendo la causa del mancato svuotamento al fatto di non essere stata oculata a mangiare cibi umidi per meglio eliminarli attraverso il vomito. Mi portò la sua disperazione e la sua impotenza in un pianto vivo, pieno, che durò per tutta la seduta. Lasciò scorrere il pianto e riuscì a stare nel dolore, mostrandosi in tutta la sua fragilità. Vidi quella bambina che avevo scorto nelle primissime sedute e cercai di accogliere, riconoscere e contenere il suo dolore, rimandandole l’ipotesi che con gli amici faceva molto sforzo per non mettere allo scoperto quella parte di sé bisognosa, e che perciò non le rimanevano energie per essere null’altro, portandola all’imbarazzo e alla mancanza di relazioni che soddisfacessero l’intimità che cercava. Livia continuò a piangere mentre mi comunicava assenso con un cenno del capo e con lo sguardo. Poi mi disse che era tanto tempo che non si sentiva così, una bimba, e che sentiva sì dolore, ma anche tanta dolcezza.

Cercai di rinforzare queste sue sensazioni rimandandole la necessità di assumersi, da adulta, la responsabilità per questa bimba ferita, e che io sarei stata con lei per aiutarla. Mi chiese allora esplicitamente di aiutarla a uscire dal circolo abbuffata-vomitata. Mi disse che qualche tempo prima aveva pensato non di poterne uscire, ma di poterlo controllare, infatti era stata intere settimane senza abbuffate, “sfogandosi” solo con le mele, anche tre o quattro al giorno. Ma quel giorno sentì che la bulimia aveva preso di nuovo il controllo, che quella sera non voleva ma si sentiva come “posseduta” da quell’irrefrenabile impulso a divorare, a distruggere tutto, anche il suo stomaco, non essendo riuscita a vomitare e avendo trovato molta difficoltà a digerire.

Lavorammo sul tema del divorare e distruggere, sia a livello immaginativo che attraverso il processo corporeo. Alla fine del colloquio le restituii l’ipotesi che la vomitata l’avesse fatta anche quella volta, ma in forma diversa. Come meravigliata mi disse che effettivamente si sentiva stanca e scarica come dopo una vomitata, solo che stavolta vedeva la facciata positiva rappresentata dal fatto che non si sentiva né in colpa né sciupata. Prima di andarsene mi disse: “è vero, anche se mi sentivo schiacciata dall’idea di essere impotente di fronte ai miei attacchi bulimici, per un attimo il dolore allo stomaco mi ha fatto sentire rinnovata, come in realtà vorrei sentirmi dopo una vomitata, ma accade sempre il contrario”.

Alla seduta successiva arrivò puntuale (fino ad allora aveva sempre ritardato dai 5 ai 6-7 minuti) e per la prima volta iniziò a parlare spontaneamente (non si verificarono quei cinque minuti di imbarazzo in cui lei non trovava nulla da dire e in cui io facevo grande sforzo per non colludere, aiutandola a sentire il suo bisogno e ad esprimerlo) come se per la prima volta sentisse la continuità tra un colloquio e l’altro.

Sentii sollievo e percepii distintamente la mia possibilità di stare totalmente nella relazione con lei, accantonando il mio bisogno, il controllo tecnico. Fino ad allora avevo oscillato tra il sentirmi interamente in relazione e tra l’accorgermi di interferenze ( paure, aggancio a sicurezze tecniche, controllo delle distanze e dei confini) che mi fornivano sia informazioni su Livia che informazioni dei miei limiti nello stare con lei (che saranno approfonditi nel corso di questo stesso capitolo).

Quel giorno mi disse che durante la settimana si era sentita fragile e sola, ma nello stesso tempo aveva sentito la speranza. Mi disse che fino a quel momento non aveva mai creduto di poter uscire dalla bulimia, mentre aveva iniziato a capire che forse esisteva una strada per stare meglio.

Alla seduta successiva arrivò dicendomi che nel corso della settimana aveva vissuto un’unica abbuffata, ma le cose erano andate in modo diverso dal solito. Al mio invito a spiegarmi meglio che cosa intendesse, rispose che non le era chiaro cosa fosse accaduto, ma che aveva sentito forse “più controllo”. Spontaneamente non aggiunse altro. Sentii, come attraverso un insight, che era giunto il momento di approfondire i suoi vissuti e le sue modalità di contatto che attuava prima e durante le abbuffate.

Prima di quel momento nutrivo l’impressione che ogni volta che lei toccava l’argomento stesse fuggendo dalla relazione, come se utilizzasse il disturbo alimentare come una resistenza e un modo per garantirsi un ruolo di “ragazza specialmente fragile” (questo fu il termine utilizzava in seduta per descrivere come si sentiva talvolta in un gruppo di amici). Questa funzione, come per assicurare la robustezza di rigidi confini, costituiva forse solo un aspetto del suo disagio legato all’alimentazione. Ipotizzai che Livia avesse imparato con il tempo a trarre dell’utile dal sintomo per far fronte ad un dolore più arcaico e profondo.

Attraverso il racconto dettagliato dei vissuti e dei pensieri che accompagnavano le sue azioni e i suoi movimenti emerse che le sue abbuffate erano per lei come l’esplosione esasperata di qualcosa presente tutti i giorni. Sostenne di avere una modalità troppo vorace di cibarsi, riconoscendo di sentirsi a volte “cieca” nel mangiare, come se tutti i sensi si acquietassero: non udiva più suoni, non vedeva immagini, non aveva pensieri ed emozioni. Si sentiva un animale dedito a divorare la sua preda. La cosa che le dava più soddisfazione mangiare erano le mele. Il primo aggettivo che attribuì a questo frutto fu “riempienti”, dicendolo con un modo che per tono della voce, sguardo e postura, mi sembrò di soddisfazione. Aggiunse poi “gustose”. Chiedendole se le veniva in mente altro, disse che il motivo principale per cui le piacevano le mele era che la “riempiono” totalmente. Mi raccontò che quasi ogni giorno ne mangiava più di una di seguito, fino a sentirsi talmente piena da sdraiarsi e dormire.

Nonostante sentisse le mele depurative, lamentò che da qualche tempo si sentiva comunque male, da non sopportarsi, avendo la sensazione di essersi “sedata” da sola. In quel momento diceva di sentirsi insignificante, senza interessi e senza voglia di far nulla. Associò poi che questa considerazione l’accompagnava spesso, in particolare quando si trovava sola in casa, nei momenti prima di iniziare un’abbuffata. Considerò che questa era spesso un’azione deliberata, la cui sola scelta le donava un senso di distensione e di calma, che poi , una volta iniziato “l’assalto alla dispensa”, lasciava spazio a un senso di incontrollabile euforia.

Legò la sensazione di distensione e di calma al fatto che il cibo gratificante ma sovrabbondate che ingeriva poteva essere subito eliminato nel wc. Una volta terminata l’abbuffata, l’euforia cessava e subentrava la fretta di correre in bagno e l’ansia di riuscire a vomitare.

Talvolta il suo coinquilino tornava quando lei non aveva ancora deciso di interrompere la mangiata, e allora, sentendo i passi sulle scale, si affrettava a mettere in ordine la cucina e far sparire le confezioni vuote. Poi si preoccupava di trovare un momento non sospetto per andare al bagno, solo che passato troppo tempo il compito di eliminare ciò che era stato ingerito diveniva più arduo.

Tempo dopo mi disse che nell’ultimo episodio di abbuffata aveva sentito di doversi fermare nel bel mezzo perché sentiva lo stomaco tirare, farle male. Si era stupita di sentirsi normale e sana per quelle sensazioni.

Attraverso il lavoro del processo corporeo in terapia Livia aveva scoperto che, oltre ad avere una parte “animalesca” che prendeva il sopravvento nel momento di cibarsi, il suo corpo era come congelato. Gradualmente entrò in contatto con le varie parti del corpo e imparò a sentire quel gelo. Quel contatto scongelò un pianto copioso e profondo.

Durante quell’abbuffata si era accorta di essere capace di sentire il suo corpo. La vaga e spesso negata speranza di poter uscire dallo stallo entro il quale stava all’inizio della terapia si trasformò in una sensazione salda.

La sua priorità divenne quella ora di darsi un controllo nel mangiare, che sentiva di fare con tale velocità da procurarsi disturbi a livello dell’intestino. Iniziò ad associare “l’irritabilità” del suo colon a questa fame divorante. Sostenne che le costava fatica controllarsi ma non voleva formule e diete, che fino ad allora invece aveva cercato, poiché intuì che non l’avrebbero aiutata in quanto si limitavano a fornire regole e garanzie esterne. Livia desiderava invece raggiungere un equilibrio tale da non dover affidarsi a rimedi meccanici e controllati.

Nel corso del processo terapeutico cercavo gradualmente di trovare a volte una conferma e a volte una guida alle mie ipotesi e sensazioni, nelle formulazioni teoriche e nei resoconti di casi clinici presenti in letteratura. Rivisitai temi e complessi frequentemente presenti in pazienti con disagi legati all’alimentazione, come il tema del controllo, un particolare rapporto complessuale con la madre, e conflitti inerenti il rapporto tra il maschile e femminile. La teoria (riportata nel 4° capitolo del presente scritto) mi fu d’aiuto, insieme alle supervisioni, per distinguere le mie ferite dalle sue. Ad esempio sentivo e sapevo dalla letteratura che nel “discontrollo emotivo” che Livia affermava di avvertire durante l’atto del cibarsi era implicato anche un meccanismo di controllo molto rigido. Ma questo tema era stato il fulcro del mio lavoro personale per molto tempo. Avevo bisogno di un supporto esterno per comprendere le dimensioni delle mie proiezioni personali. Nella supervisone capii di potermi fidare delle mie sensazioni e dello scrupolo che mi aveva portato a consultare in modo approfondito,scritti inerenti ai disturbi alimentari.

In una seduta in cui mi portò di nuovo il conflitto tra controllo e “sregolatezza”, non lasciai implicito il tema, come già avevo fatto consapevolmente due volte, ma mi agganciai alle sue parole, con l’obiettivo di farle contattare quella parte estremamente controllante che precedentemente non era consapevole di vivere.

Fino a quel momento Livia si era raccontata come una persona priva di regole, che perdeva facilmente il controllo, disordinata e caotica. Io vedevo Livia come ligia al dovere, curata nei dettagli dell’aspetto fisico, dell’abbigliamento e degli accessori, mentre lei si sentiva trascurata, sciupata. Parlava della sua camera descrivendola piena di caos, per la quale non riusciva a ritagliarsi momenti per mettere ordine tra i suoi oggetti. Cercai di sottolineare la compresenza di queste esperienze con altre apparentemente opposte: spesso Livia aveva passato parte del tempo libero a creare ordine perfetto e pulizia negli spazi comuni della casa; dalla scuola all’università e dalla danza al lavoro aveva sempre impiegato molte energie per cercare di ottenere i risultati migliori. Anche durante l’ultima esperienza lavorativa portava spesso in seduta il disagio che provava nei confronti del capo che la spronava a vendere di più e alla confusione che provava innanzi ai colleghi, derivante dal sentirsi in dovere di aiutarli nelle loro mansioni e nello stesso tempo di riuscire a soddisfare il responsabile nel suo obiettivo di vendita (se si cimentava in altre mansioni per aiutare i colleghi non si dedicava ottimamente alla vendita, se invece si dedicava esclusivamente alla sua parte si sentiva passabile di critica dai colleghi).

Esplorammo i vissuti che sperimentava nei contesti lavorativi, nella relazione con i colleghi e con i dirigenti. Emersero racconti risalenti anche ad alcuni anni prima, come a dimostrare che il disagio non era circoscrivibile a quell’ultima situazione. Il tema si riallacciò ben presto a quello del controllo. In una seduta Livia arrivò a vedere come molte delle sue giornate passassero completamente all’insegna del controllare ciò che faceva.

Gradualmente la paziente prese consapevolezza di quanto, anche nello schema abbuffata/svuotamento, che lei reputava fosse l’emblema della sua sregolatezza, fosse invece implicato un sofisticato meccanismo di controllo: Livia controllava l’ambiente e controllava sé stessa tanto da permettersi una perdita di controllo totale (l’abbuffata) ma controllata (la sicura decisione di vomitare). Livia iniziò allora a collocare in un insieme dotato di senso elementi della sua vita a cui prima non sapeva dare un nome ed un significato. L’imbarazzo che percepiva nel silenzio, il vuoto che sperimentava come alternativa all’intimità anelata ma assente, la sensazione di non avere passione e interessi, erano ora per lei il risultato del suo massivo impiego di energie nel controllare le distanze, i confini, i giudizi.

Apprese quanto di ciò che non apprezzava in sua madre appartenesse anche a lei stessa, ma in forma nascosta. Se la mamma si preoccupava apertamente e morbosamente di quello che potessero pensare gli altri, se si lamentava in modo quasi paranoico di non essere voluta, amata e apprezzata, così Livia aveva rinnegato per molto tempo il timore di giudizi e rifiuti, costruendosi alte barricate dalle quali controllarli e anticiparli per scacciarli prima di doverci entrare in contatto.

In questo periodo mi portò un sogno fatto la sera precedente: “sono al lavoro alla farmacia, mi scappa la pipì ed entro nella stanza del capo. Lui sta conducendo un colloquio con un’altra persona che non vedo. Imbarazzata ma decisa cammino lenta verso di lui, gli arrivo accanto, mi posiziono e mi slaccio i pantaloni, mi calo le mutandine e urino. Cerco di non guardarlo ma lui mi guarda. Mi sento imbarazzata e nello stesso tempo tranquilla. Poi mi alzo, mi rivesto e ad esco tranquillamente dalla stanza. Mi sveglio allegra e tranquilla”. Me lo raccontò mostrando imbarazzo. Riflettendo sulla presenza di due sensazioni apparentemente contrastanti, riconobbe come dominante la tranquillità sia nel sogno che nel qui ed ora della seduta.

Livia associò l’urinare a un atto di disprezzo, aggressivo ma anche di emancipazione. Nel sogno faceva questo gesto nei confronti del suo “capo”. Questo era per Livia autoritario, controllante e cinico. L’io del sogno svalutò quella parte controllante e ne prese le distanze. L’imbarazzo e la difficoltà di Livia furono compensate nel sogno da quella tranquillità e sicurezza che la guidavano. Nel processo associativo Livia tendeva a identificarsi con un ruolo dal potere aggressivo, svalutativo, violento verso sé e verso le relazioni. Rischiava il passaggio dal controllo serrato all’estrema trasgressione e volubilità. Tale rischio non rappresentava nulla di nuovo, ma il sogno le stava mostrando un’altra possibilità. Accanto alla tranquillità c’era l’imbarazzo che la ricondusse a un rapporto con la propria intimità e la ricollegò alla dimensione del rispetto. Durante il lavoro sia associativo che rappresentativo di questo sogno Livia riconobbe la possibilità di esporsi, di dire no e di trovare un limite alla sua stessa “ribellione”.

In seguito a quel sogno Livia iniziò a sentire, riconoscere ed esprimere l’aggressività, intesa come affermazione di sé ad andare verso il soddisfacimento dei propri bisogni.

Sperimentammo un’inversione dei ruoli tra lei e il suo superiore, estremizzandoli: da una parte interpretò una ragazza completamente accondiscendente, passiva e remissiva, dall’altra una donna autoritaria, decisa e chiara. Cercammo di lavorare sull’integrazione di queste parti per fasi, passando attraverso il lavoro sul processo corporeo. Nel processo d’esplorazione corporea, sentì bloccata la possibilità di prendere spazio, decisione e agire con forza, ma gradualmente riconobbe i movimenti che possono essere alla base di queste azioni ed entrò in contatto con la dimensione dell’aggressività che visse allo stesso tempo come familiare e come nuova.

La riscoperta di questi movimenti la rimandarono ai vissuti che sperimentava “sbranando” il cibo, aprendo con decisione le ante della dispensa della cucina, inducendosi il vomito. Quest’esplorazione consistette in un processo lento e doloroso in cui più di una volta si verificarono momenti di stasi o di ribellione. Mi accorsi che in certi momenti, incalzai il processo più del necessario, senza rispettare i suoi tempi, e intuii che il mio obiettivo inconsapevole era quello di portarla a una rabbia verso questa mia stessa forzatura che prima non si permetteva di portare in terapia. Lavorai personalmente sul significato di questo mio obiettivo implicito e sentii che era scaturito da un sentimento di cotransfert: sentivo empaticamente una rabbia che lei non si permetteva di esprimere con me e capii di non poter far altro che spronarla per farle sperimentare questa esperienza potenzialmente rischiosa nel contesto protetto della terapia con me.

Un giorno, successivo a un periodo di sedute intense e dolorose, rimase zitta per la prima metà del tempo a disposizione, guardandomi con uno sguardo che percepii come inespressivo. Con l’obiettivo di non colludere con la sua passività non dissi niente finché lei esordì dicendomi, con espressione impaurita ma con tono rabbioso, che aveva bisogno di una pausa, che per lei era troppo, che era stanca e che si sentiva pazza. Le chiesi cosa intendeva per pazza e mi disse che la sera prima aveva schiaffeggiato la madre che era venuta a trovarla da Messina e sostava in casa sua da 3 giorni. Le chiesi se era la prima volta che le capitava e mi rispose di no e subito dopo iniziò la sua conosciuta risata nervosa che si trasformò poi in un pianto che mi comunicava molto dolore. Ogni volta che cercava di parlare, la voce le si strozzava in gola e il pianto proseguiva. La contenni per tutta la seduta. Verso il finire del tempo le comunicai che era giunto il momento di chiudere. Con mia sorpresa non indugiò immobile e guardarmi confusa e spaurita, al contrario fece cenno di sì con la testa, aprì la borsa, cercò il portafogli, mi pagò, si asciugò le lacrime e mi salutò con un sorriso che mi commosse. Vidi un insieme di gesti nuovi, il suo viso sembrava aver assunto una nuova fisionomia, come se si fossero sciolti dei fili che lo tenevano legato e contratto. Durante la settimana di attesa della seduta successiva, nonostante mi posi molte domande e pensai a numerose ipotesi relative a quello che aveva potuto aver provato Livia, avvertii tranquillità e serenità nel pensare a questo caso.

Nei colloqui successivi emerse come Livia qualche volta aveva schiaffeggiato la madre, con lo stessa impulsività che sentiva quando “sbranava” le mele. Inoltre riconobbe la necessità di voler conoscere da vicino quella rabbia che la portava a gesti così distruttivo. Mi riferì che nella seduta in cui mi disse per la prima volta questo “segreto”, aveva provato l’impulso di schiaffeggiare anche me. Riconobbe della rabbia nei miei confronti che provava nel momento in cui stava male e nei giorni successivi. Emerse la consapevolezza di pretendere da me una cura immediata.

Cercai allora di condurla alla scoperta della differenza tra il chiedere ed il pretendere. A questo puntò seguì il lavoro sul processo di assunzione di responsabilità sia delle sue azioni autodistruttive e sia della capacità di prendersi cura di sé.

Il contatto pieno con la sua rabbia e la sperimentazione della possibilità di incanalarla al fine di soddisfare appieno i suoi bisogni, le permise di poter stare a contatto anche con la tristezza. Fu come se nel momento in cui avevo retto alla sua aggressività, avesse potuto mostrarsi in tutta la sua fragilità e il suo dolore.

Quando sua madre ripartì per Messina, si accorse di come per la prima volta non si sentisse affatto sollevata dal distacco con sua madre: se solitamente Livia si sentiva liberata, stavolta percepiva invece un macigno sul petto.

Lavorammo con la sedia calda e la drammatizzazione le permise di passare dal lamentarsi di una madre critica verso di lei, al sentire con tristezza la sua stessa “intransigente criticità” nei confronti della stessa mamma. Il macigno sul petto iniziò ad acquistare il significato di un dolore, di una profonda tristezza che da tempo si impediva di sentire, negandola attraverso una rabbia distruttiva.

Da quella seduta potemmo affrontare quel legame con la madre che non riconosceva ma che percepiva attraverso il nucleo di potenti, dense e talvolta violente emozioni. Attraverso il lavoro di sensibilizzazione corporea Livia poté sperimentare gradualmente il contatto con la tristezza, con il senso di abbandono e di solitudine che provava in relazione alla mamma.

In questo processo di riavvicinamento ad antiche emozioni congelate riuscì ad osservare in modo più approfondito la qualità distruttiva della sua aggressività che diveniva rabbia cieca nel momento in cui si sentiva impotente a prendersi cura di sé. Tale potenza aggressiva -distruttiva aveva trovato particolare e massima espressione nelle abbuffate-vomitate e aveva presenziato costantemente nella sua vita. Mi descrisse l’abbuffarsi sia come un immenso piacere sia come qualcosa che la portava a distruggersi. L’abbuffata riempiva, impedendo l’accesso a qualsiasi altro stimolo e forma di gratificazione, ma nello stesso tempo era espressione di una collera verso sé, verso certe sue parti sentite come sporche, caotiche e cattive. In una seduta emerse l’insight che l’abbuffata rappresentava per lei “il piacere di darsi sberle”.

Sentii che era necessario approfondire con la paziente il lavoro di radicamento al corpo. Trovai conferma nella teorizzazione di Lowen sulle reazioni emotive di base , quali la collera e la rabbia. Ne “Il Piacere” afferma : “Quando l’identificazione dell’Io con il corpo è meno marcata, con il conseguente indebolimento del controllo egoico, lo scatto di collera si trasforma spesso in sfogo di rabbia, cosa che frequentemente è distruttiva sia per la persona sia per l’ambiente.” ( A. Lowen, “ Il Piacere”, Casa Editrice Astrolabio, 2000, pag. 158)

La mela “riempiente” e gustosa apparve nei miei sogni, dandomi la sensazione di essere la madre di Livia: sognai la mia paziente che viveva nel marsupio di una grande mela verde, e vidi la mela maturarsi pian piano, divenendo sempre più piccina, e facendo emergere Livia sempre di più.

Lessi il sogno come un aiuto al mio lavoro di catalizzazione del processo individuativo della paziente. Interpretai le immagini apparse come rappresentazioni delle tappe da compiere: Livia necessitava di integrare le emozioni provate verso sua madre, di riconoscere e accettare sua mamma come persona nella sua complessità, di accettare il suo (di Livia) bisogno di nutrimento, e di assumersi la responsabilità di questo bisogno e del suo soddisfacimento. Livia doveva riconoscersi in questo marsupio, iniziare a distaccarsi dalla “Grande Mela”, per permettere alla “mela” dentro di sé di esprimersi.

Questo lento processo vide lo sviluppo del contatto con esperienze emozionali congelate, proiettate o retroflesse. Livia iniziò a soffermarsi ad ascoltare sé stessa, a riconoscere e accettare vecchi pensieri, emozioni e quei bisogni che, non essendo mai stati appagati, erano diventati impellenti e violenti.

Prese gradualmente confidenza con questo stato che si raffigurò nella metafora del mare agitato. Gradualmente questo mare si calmò lasciando aperta la visuale su di un vasto deserto. Tali erano le immagini che Livia mi portò durante quella tappa della terapia. Insistette sul deserto: si sentiva vuota, sola, non riusciva più a vomitare, le abbuffate erano diminuite ma si erano fatte più pesanti, meno energiche, più noiose. Iniziò a sentirsi intrappolata, senza via d’uscita, senza speranza.

A tratti Livia riconosceva la potenzialità creativa del vuoto, altre volte percepiva una sorta di arsura dell’anima. Un giorno trovò la forza di ribellarsi, progettando una fuga dal deserto: in seduta mi disse che era inutile cercar di capire il significato dei suoi disagi, cercare qualche nucleo profondo da risolvere, perché forse era tutto questione di genetica, del resto anche sua madre non era mai stata bene, una depressa cronica..

In questo momento sentii di poter solo accogliere questo suo momentaneo sconforto, questo attacco alla terapia e presumibilmente al mio ruolo. Mi limitai a condurla, attraverso l’uso della metafora, nella traduzione in immagini e in significati di ciò che aveva appena affermato. Verso la conclusione del colloquio le chiesi se questo suo ricondurre il disagio e la sofferenza a una matrice genetica in comune con la madre, poteva essere un modo per sentirsi unita a sua mamma. Senti così di sottolineare la parte positiva insita in quella sua affermazione, tenendo comunque in considerazione anche la parte potenzialmente distruttiva : la negazione della possibilità di cambiamento poteva costituire una resistenza alla differenziazione dalla madre. Nel processo sentii che era importante riportarla alla sua condizione di figlia, al riconoscimento di un unione con sua madre all’origine, senza cui non avrebbe potuto accettare le potenti emozioni che circolavano nella relazione mamma-figlia e accedere alla consapevolezza della sua sofferenza.

Quel giorno Livia se ne andò dalla seduta in silenzio, dopo avermi guardata a lungo con uno sguardo che non mi giunse né richiedente né esitante, e dopo avermi detto il suo primo “grazie”.

Nel periodo successivo emerse come Livia nutrisse il desiderio di essere riconosciuta totalmente e di essere trattata come più importante del suo aspetto fisico, come se il viaggio nel deserto l’avesse messa in contatto con la sua identificazione con un’ideale dell’io scisso della sue esperienze corporee.

Mi raccontò del fatto che spesso si sentiva imbarazzata nell’intimità con Damiano, di quanto temesse il confronto, nonostante lui cercasse di metterla a suo agio. Mi disse che spesso si era sentita trattata superficialmente dalla madre e cresciuta con l’obiettivo di educarla a ben apparire. Riuscì a raccontarmi di quanto sua madre si sentisse a sua volta insicura e non riconosciuta dal marito. Per la prima volta Livia riuscì a esprimere affetto per la madre, nonostante fosse un sentimento che viveva non senza conflitto, a causa della difficoltà di conciliare questa tenerezza con l’elaborazione in atto del lutto per ciò che non poteva pretendere più da sua madre.

Le abbuffate si erano diradate progressivamente: quando iniziò la terapia avvenivano circa a sere alterne. Passò poi una fase in cui queste condotte si verificavano una o due volte nel fine settimana, mentre a circa un anno dall’inizio della terapia parlava di abbuffate occasionali e di qualità diversa. La differenza consisteva nella percezione di tensione allo stomaco, nella difficoltà a vomitare unita alla sensazione di non sentire più gratificazione nell’abbuffarsi. Anche le “divorate di mele” erano diminuite: parlava di star sperimentando una nuova modalità di mangiare, ovvero cercava di concentrarsi sul respiro e di essere consapevole dei suoi movimenti. Riferì di essere riuscita a imparare e a sentire di poter mangiare più lentamente.

In quel periodo notai la presenza ricorrente di un nuovo nodo centrale nella vita di Livia e contemporaneamente l’assenza costante di un tema che mi prefiguravo come importante. Cominciò a parlarmi spesso del suo rapporto con il maschile, in particolare dei suoi vissuti nella relazione con Damiano e con il suo coinquilino Elio, del suo sentirsi più o meno accudita, più o meno apprezzata, mentre notavo che in un anno aveva nominato ben poche volte il padre, e quelle volte il contenuto del racconto si era rivelato denso e pregno di significati. Durante una seduta mi raccontò di aver avuto una telefonata con i genitori per chiedere un aiuto economico. Mi accennò la risposta del padre che lei aveva vissuto come ambigua, ma descrisse l’evento parlando all’impersonale e in modo molto generale. Quando glielo feci notare lei si bloccò in evidente imbarazzo. Alla mia domanda su cosa stesse succedendo, lei si focalizzò sulla questione del denaro, sulla sensazione di non essere compresa e aiutata. Insistetti nel chiederle chi non la comprendeva e si aprì il tema del padre. In quella seduta lavorammo sulla sua difficoltà a chiedere al padre. Il lavoro aprì la strada per l’esplorazione della capacità del chiedere e del ricevere, facendo emergere una storia di imbarazzo nel ricevere e un’assenza di richieste esplicite e chiare da parte sua. Questo tema si riallacciava alla sua difficoltà ad accettare ed ascoltare i suoi bisogni. Approfondimmo così il lavoro sull’assunzione di responsabilità accennato già in precedenza.

Il tema del padre venne di nuovo sorvolato. Mi chiesi quanto la sensazione dell’importanza di questo argomento trovasse energia da miei complessi piuttosto che dal dispiegarsi del percorso di Livia, e quanto io potevo contribuire, con la collusione, a evitare il tema.

Intuii che la mia sensibilità verso questo grande assente aveva radici nella mia storia personale, e grazie a una supervisione capii che ciò che temevo stesse offuscando la mia visione di Livia, poteva, lavorando su ciò che mi apparteneva, anche aiutarmi a scorgere ciò su cui in altre circostanze non mi sarei soffermata.

Non ricordavo di aver fatto interventi collusivi, tuttavia da quel momento prestai molta attenzione al mio conflitto tra il rispettare i tempi di Livia e il sentire di voler determinare la direzione e i tempi del processo terapeutico. Approfondii il mio lavoro personale riguardante la fatica ad attendere in circostanze in cui mi prefiguravo momenti d’ansia. Con il tempo sentii di riuscire a stare più serenamente nei tempi della paziente e a riuscire, in caso di necessità, a incanalare la sua attenzione e le sue emozioni verso un aspetto, un tema dominante della seduta. La mia nuova tranquillità permise forse a Livia di percepire che stava evitando di affrontare qualcosa che era ormai divenuto esplicito in diverse occasioni. In quel periodo, sul finire di un colloquio, Livia mi espresse la sua stanchezza e il suo bisogno di prendersi una vacanza da tutto, anche della terapia. Mi disse di non voler evitare temi importanti e fuggire da un lavoro faticoso, ma sentiva di essere stanca. Riconobbe che aveva degli argomenti difficili su cui lavorare e che non avrebbe più potuto evitare di toccarli. Aggiunse che l’odio maggiore ora lo sentiva verso il padre, ma che non aveva le forze per “fargli battaglia” come aveva fatto con la madre. Accolsi la sua stanchezza e le restituì la bontà di quella sua ammissione. Quel giorno sul ciglio della porta, al finire del colloquio mi chiese se poteva fare una cosa. Le chiesi di esplicitare “la cosa” e lei mi abbracciò. Restai immobile e fredda, come se da una parte fossi stata colta di sorpresa e dall’altra si fosse attivata una mia resistenza nei suoi confronti. Rimasi però in ascolto dell’abbraccio e lo sentii sincero, caldo e riconoscente , come lo sguardo.

Non venne in terapia per tre settimane (che trascorse in Sicilia), durante le quali io mi concentrai sui vissuti di controtransfert verso la paziente. Quell’abbraccio inaspettato e spontaneo mi fece riflettere sulle mie modalità relazionali, sulla flessibilità dei miei confini e di come questi si riflettessero nell’uso delle distanze corporee. La mia resistenza a un contatto pieno era in parte segno della mia storia, che si era intrecciata in una relazionalità terapeutica con aspetti bidirezionali con quella della mia paziente.

Mi resi conto che in momenti in cui avevo avvertito difficoltà rispetto alla mia capacità di gestire i confini, mi ero approcciata a lei con una facciata di imperturbabilità emozionale e un distacco dall’aspetto professionale. Fui consapevole di ciò nel momento in cui percepii che le mie difese si stavano abbassando gradualmente insieme a quelle della paziente. Riflettei sul fatto che questo caso clinico stava svolgendo una funzione terapeutica anche per me, nel momento in cui fui maggiormente in grado di rispettare e far rispettare le regole condivise del setting e di reggere l’aggressività della paziente. In diverse occasioni dopo una seduta con Livia avevo avuto la sensazione di non valere come professionista. Portando questo mio disagio in supervisione mi accorsi che lei aveva spesso utilizzato delle modalità svalutative anche nei miei confronti (oltre che con le figure femminili della sua vita). Questa sua strategia difensiva aveva incontrato la mia fragilità di neo professionista e le parti più insicure della mia personalità. Questo “incontro” da un lato aveva costituito una risorsa per la terapia (oltre che per me come terapeuta) nel momento in cui avevo iniziato a distinguere i suoi attacchi dalle mie insicurezze, ma dall’altro lato ancora avvertivo un limite che si era manifestato nella mia incapacità di accogliere (o rifiutare) un suo contatto fisico. L’interruzione estiva avrebbe costituito l’occasione per lavorare su quel limite, al fine di renderlo utile al processo terapeutico.

Al primo incontro dopo la pausa, la paziente mi portò il fatto che sia nella sua terra d’origine, che nella città in cui aveva scelto di vivere e costruire il suo futuro (Pisa), soffriva per la mancanza di relazioni intime. Quel giorno lavorammo sul tema dell’intimità, e mi meravigliai che fosse lo stesso su cui mi ero impegnata personalmente in quell’estate, come se questa sincronia potesse essere un indice positivo della qualità del rapporto terapeutico.

Il lavoro sull’intimità si focalizzò in sedute successive sulla fiducia e sulla capacità di Livia di affidarsi. Per la prima volta, nonostante in precedenza, per riportarla al piano concreto e personale, le avessi rivolto delle domande sulla qualità del nostro rapporto, Livia riuscì a citare esplicitamente la relazione terapeutica. Accolsi questa apertura alla relazione come segno di una buona alleanza e come occasione per esplorare a livello profondo la sua paura dell’altro e il suo bisogno di lasciarsi andare e di affidarsi, utilizzando sia tecniche verbali che immaginative, oltre al processo corporeo.

In questo periodo, all’inizio di una seduta, mi disse di essersi abbuffata e di aver vomitato proprio la sera dopo il nostro ultimo incontro. Lavorando con immagini e con associazioni sull’accaduto, Livia si permise di dirmi, piangendo, che le sembrava di aver simbolicamente vomitato sulla seduta appena fatta. Le proposi di drammatizzare, tramite la tecnica della sedia calda, il rapporto tra lei e “lo spazio terapeutico”. In questa sperimentazione, da una frase (“ho bisogno di te ma non so se mi sai aiutare”)emerse la sua difficoltà nel chiedere aiuto e nell’affidarsi. Esplorammo la sua difficoltà, la sua storia, e come si era manifestata attraverso le sue modalità di contatto. Dapprima Livia sperimentò la possibilità di lasciarsi andare, di poter provare emozioni e stati regressivi sentendo di essere accolta, contenuta e nutrita. Successivamente avvertì la necessità di crescere, di rendersi indipendente e di canalizzare un’aggressività funzionale ai suoi bisogni, lavorando sulla capacità di chiedere, di prendere e di dare.

Nonostante prima della pausa avessi pensato al tema del padre come l’argomento tabù da affrontare al più presto, come in un insight compresi che la terapia in quel momento aveva compiuto un passo importantissimo nel processo di accettazione dei bisogni, di assunzione di responsabilità e nel mostrarsi intera davanti a me, senza maschere dalle emozioni congelate e disconosciute.

Da questo periodo in poi Livia iniziò a mettere in discussione la sua relazione con Damiano. Erano ormai parecchi mesi che vivevano il loro rapporto a distanza e in quel momento iniziò ad avvertire la mancanza di una relazione concreta, che si realizzasse nel presente. Parallelamente al processo che la portò ad entrare in contatto con i suoi bisogni, con le sue paure e la sua aggressività, prese dolorosamente coscienza che da tempo non stava vivendo una relazione d’amore che le desse l’opportunità di sperimentarsi nel presente. Livia e Damiano vivevano di ricordi e di sogni per il futuro. Si incontravano due-tre giorni ogni sei mesi, in uno spazio di tempo che si riduceva a essere funzionale per la progettazione futura. Livia sentì che quella situazione non le permetteva di canalizzare appieno le sue energie nel tempo presente e nello spazio concreto. Riconobbe che quel meccanismo che prima mostrava e definiva come indecisione sul “dafarsi” che poi sfociava nell’impulsività di una scelta non sentita, poteva essere frutto di un conflitto tra vari bisogni. Livia passava da indirizzare le sue scelte e le azioni concrete verso la partenza per Copenaghen al fine di raggiungere Damiano, vivere con lui e creare una famiglia, all’investire energie sia nella creazione di una rete professionale nella zona di domicilio, che pian piano la stava portando verso una pozione lavorativa attinente alle sue aspirazioni, sia nell’instaurare nuovi rapporti di amicizia basati sull’intimità e il sostegno reciproco.

Un maggior contatto con il suo mondo interno le permise di leggere queste sue indecisioni come frutto del conflitto tra l’idea della sicurezza di avere un fidanzato che si prendesse cura di lei, che la amasse e la accettasse incondizionatamente e la necessità di radicarsi nel tempo e nello spazio, di realizzare concretamente il suo potenziale vitale assumendosi il rischio di allontanarsi da questa idea di sicurezza che le procurava l’essere fidanzata a Damiano.

Attraversammo una lunga e tortuosa esplorazione, fatta di spezzoni di sogni, sedie vuote, inversioni di ruoli e di processo corporeo per contattare blocchi, interruzioni di contatto e tensioni, per sperimentare quelle funzioni che le tensioni stesse impedivano. Con il tempo Livia prese coscienza della sua volontà, della sua capacità di scelta. Si stupì nello scoprire che le apparteneva anche la determinazione. Comprese come le scelte invece fatte impulsivamente fossero espressione di conflitti tra opposti ancora non integrati (come la realizzazione personale accanto all’amore e alla sicurezza) e scaturivano dalla paura di perdere una “fantomatica” sicurezza. La parola tra virgolette la citò lei stessa quando riconobbe che quella tranquillità che si prefigurava non aveva nessuna base reale. Quest’amore con Damiano era immaginario, l’idea di una vita condivisa con lui non aveva più nessuna radice concreta.

Fece un sogno nel quale lei e Damiano consumavano un pasto seduti ai due capotavola di un tavolo lunghissimo e mentre lei cercava di chiedergli se gli piaceva il pasto, lui rispondeva che la tovaglia era molto bella.

Durante il lavoro associativo, come in un’insight mi disse: “ è come se il sogno mi mostrasse come ho paura di perdere qualcosa che non ho. Per questo ho paura. Se il mio rapporto con Damiano fosse reale e vissuto nel presente, avrei la possibilità di sentirlo solido o meno”. Iniziò così a collegare la paura di perdere una relazione all’impossibilità di sentirla realmente. Riuscì con molto dolore a riappropriarsi di una parte aggressiva che inibiva nelle relazioni intime con figure maschili. Riconobbe la sua dipendenza e la necessità di andare oltre, come se questa modalità non fosse più funzionale alla sua “tranquillità”.

Riuscì a comunicare e chiedere a Damiano aiuto e tempo. Riconobbe un “gioco” relazionale che si stava compiendo tra loro: da una parte lui le chiedeva di raggiungerlo, e ogni volta che Livia aveva virato verso questa posizione lui iniziava a parlarle delle difficoltà che stava incontrando nella vita di Copenaghen e della possibilità di tornare in Italia, invitandola a non affrettare importanti decisioni; d’altra parte Livia non riconosceva la sua ambivalenza, sottolineando la sua stessa incapacità di scelta generalizzata a tutti gli aspetti della vita, convincendosi che non avrebbe mai potuto vivere senza la guida saggia di Damiano, permettendo così a questa dinamica relazionale di perpetuarsi.

Per alcune sedute Livia mi portò questo gioco relazionale come problema principale e prioritario. Lavorammo sulla consapevolezza delle sue modalità relazionali e del suo contributo nel mantenere queste dinamiche. Le presa di coscienza era contrastata dalla difficoltà nell’assunzione di responsabilità per la possibilità di attuare attivamente un cambiamento.

Livia mostrò dapprima una resistenza nel concentrare la sua attenzione su di sé, cercando di spostarsi sulle responsabilità di Damiano. Questa “riluttanza” nel ritirare le sue proiezioni di responsabilità stava forse rallentando un processo maturativo e di cambiamento, ma in ciò percepii comunque un elemento di novità sul quale cercai di indirizzare la sua attenzione: incolpando il fidanzato delle difficoltà di coppia, stava sì distogliendo lo sguardo dalla sua responsabilità, ma si stava anche permettendo di prendere le distanze dalla dipendenza da lui, arrabbiandosi. Rafforzai questa sua posizione, rimandandole la sua stessa rabbia, con l’obiettivo di portarla a un contatto pieno con questa aggressività, al fine di permettere l’emergere di una nuova figura che poteva essere la paura di spezzare quel circolo vizioso che stavano nutrendo da ormai troppo tempo.

Gradualmente Livia poté contattare le emozioni che costellavano questa dinamica. Scoprì un dolore profondo. Lunghi e sommessi pianti lasciarono emergere un’antica emozione legata all’esperienza del legame con il padre. Scoprì quanto la sua approvazione fosse stata qualcosa di vitale importanza, sentì quanto il suo legame con il papà fosse passato da un’assoluta complicità alla rottura totale. Mi chiesi quanto suo padre avesse assunto il suo ruolo paterno fino in fondo e quanto avesse sentito Livia come sua figlia da crescere. Le chiesi se per caso sentiva che il rapporto con suo padre si fosse troncato troppo presto. Con occhi lucidi e con voce tremante dal dolore mi rispose che suo padre l’aveva abbandonata nell’adolescenza e che si sentiva abbandonata e tradita. Inoltre al termine del nostro tempo, aggiunse: “non sono mai stata né bimba né donna. Io ora voglio essere la figlia di mio padre e la donna di Damiano (o degli uomini che amerò)”

Quella seduta si concluse in silenzio. Da una parte sentii la necessità di non aggiungere altro per non distogliere l’emozione dal tema che era emerso, così cruciale per Livia, dall’altra sentii anche la mia esigenza di contenere la forte emozione che circolava nella relazione. Non stavo solo contenendo Livia , ma stavo cercando di contenere anche me, come se un mio vecchio complesso non ancora completamente risolto mi stesse impedendo di esprimere liberamente la mia commozione. Questo limite mi aiutò nel riconsiderare il mio percorso fatto, nel sentire quale vuoto una dipendenza affettiva può celare, e nell’ipotizzare quali avrebbero potuto essere gli obiettivi futuri di Livia.

Il lavoro che costituì le sedute successive si concentrò, oltre che sul processo di consapevolezza di come era legata a suo padre, su quali potessero essere le conquiste che una preadolescente avrebbe potuto compiere, su come avesse potuto trovare una dimensione intima personale e uno spazio interno indipendente.

L’immagine più forte che Livia mi portò in quel periodo fu quella di lei che leggeva un libro da sola in una stanza, che rappresentava un desiderio di uno stato interiore da raggiungere. Associò la scena alla sua difficoltà a stare con sé stessa per sé stessa. Si rese conto di come ogni azione, ogni progetto e pensiero che facesse, fosse indirizzato all’esterno, con l’intenzione di apparire ed essere in funzione degli altri, e di come l’idea di suo padre come saggio giudice fosse un’influenza onnipresente, come una voce silenziosa dentro di sé.

Insieme decidemmo che il prossimo obiettivo da raggiungere sarebbe stato quello di stabilire un dialogo con tale voce. La finalità era fare in modo che non parlasse solo questo saggio padre ma anche una Livia che fino a quel momento non si era permessa di pensarsi come essere a sé stante. L’incapacità di riuscire a stare sola leggendo un libro era l’espressione della sua ansia di fronte al vuoto che percepiva dentro, un vuoto alimentato dalla tendenza a cercare nutrimenti esterni e ideali e a trascurare parti di sé preposte a masticare, digerire, assimilare e smaltire l’esperienza di sé in relazione.

Nonostante il processo terapeutico con Livia stia tuttora proseguendo, la narrazione si conclude a questo punto, che coincide con il periodo di prima stesura di questo caso, coincidente con il maggio 2012.

Il testo prosegue ora con l’analisi delle dinamiche portatemi da Livia, alla luce delle teoria psicologiche presenti in letteratura.

L’inquadramento clinico e gli obiettivi terapeutici

Livia era giunta a colloquio motivata da un disagio che sentiva di non tollerare più, che grazie a informazioni conosciute comunemente aveva diagnosticato come bulimia. Solo nel tempo quei sintomi, che l’avevano portata a dare un nome diagnostico al fenomeno, acquisirono per lei un senso, alla luce delle sue relazioni e dei suoi vissuti.

La mia intenzione per questo capitolo è quella di descrivere le relazioni tra le dinamiche psichiche interne e relazionali, i complessi psichici, il vissuto cosciente della paziente con le figure di riferimento e la sua “bulimia”. Mi riallaccio così a Yager (1984) che ha osservato: la bulimia non è una malattia. E non è nemmeno una semplice abitudine. La bulimia è eterogenea e, come la polmonite, può dipendere da vari fattori. Io ho trovato utile concettualizzare la bulimia come uno schema comportamentale incastonato in una personalità, a sua volta incastonata in un corpo, vivente in un sistema familiare, e tutto ciò incastonato in una cultura nella quale sembra che la bulimia si stia sviluppando a ritmo crescente. (www.psycnet.apa.org/index.cfm?fa=search.displayRecord&uid=1997-07483-001).

Il processo terapeutico con Livia mostra come la sintomatologia da lei raccontata abbia costituito una modalità comunicativa, per esprimere a parti di sé e agli altri, emozioni antiche e violente.

I sintomi di anoressia prima e di bulimia poi si sono manifestati per la prima volta in un momento importante per Livia: durante lo sviluppo psichico e sessuale dell’adolescenza e nel mentre stava vivendo grandi conflitti relazionali con la madre e con il padre. Dal processo terapeutico sembra essere emerso che la risposta di Livia a tale momento cruciale sia stato espressione di un disagio preesistente.

Ho potuto raccogliere la storia familiare fino, parzialmente, a quella dei genitori, ma sarebbe stato interessante compilare un genogramma, al fine di inserire il senso del vissuto di Livia all’interno di un sistema complesso in grado di mostrarne le radici, il movimento e quindi le sue sfumature.

G. Reich e M. Cierpka (1998) hanno riscontrato in pazienti bulimiche problemi nel dialogo emotivo con i genitori e un pattern costante di conflitti tra parti contradditorie del Sé, influenzato da identificazioni conflittuali con i genitori. Secondo questi autori molte pazienti bulimiche vivono una mancanza di rispetto dei propri confini e un’intrusione nella loro privacy, che si manifesta con abusi fisici o psicologici. Reich e Cierpka hanno notato che questi pazienti frequentemente utilizzano difese che coinvolgono un rovesciamento degli affetti e la trasformazione della passività in attività, presentando spesso risposte superegoiche contradditorie.

Le ipotesi di Reich e Cierpka mi ricondussero a quelle mie considerazioni, illustrate nel precedente capitolo, relative alla capacità di Livia di gestire i confini simbolici, e alla sua difficoltà nel reggere la tensione al confine di contatto con l’altro e con l’ambiente: Livia utilizzava una parte non riconosciuta della sua aggressività per garantire un controllo di quei confini alti e rigidi, funzionali alla difesa contro l’angoscia e il vuoto. I primi sotto-obiettivi terapeutici concreti che stabilimmo furono relativi alla capacità di stare a proprio agio nel silenzio e nel riuscire a sostenere lo sguardo altrui.

Gli oggetti buoni e cattivi introiettati nelle relazioni parentali venivano proiettati sul cibo: il vomito era una canale di espressione dell’aggressività che dava alla paziente un sollievo momentaneo, ma il sentimento residuo di bontà che otteneva con l’espulsione degli oggetti cattivi era instabile, in quanto era basato sulla scissione, sul diniego e sulla proiezione dell’aggressività, anziché sull’integrazione di aspetti buoni e cattivi degli oggetti, e pertanto la lasciava insoddisfatta, colpevole e svuotata.

Dalle ricerche condotte, Reich e Cierpka hanno concluso che le pazienti bulimiche hanno notevoli difficoltà con la separazione e l’abbandono, e così anche i loro genitori.

Secondo Winnicott nella bulimia c’è assenza di un oggetto transizionale che aiuti la figlia a separarsi dalla madre. Ciò conduce, nella vita adulta, a un tentativo di separazione ritualizzato, prendendo come oggetto transizionale il proprio corpo. L’ingestione di cibo ha rappresentato per Livia il desiderio di fusione simbiotica con la madre, mentre le condotte di eliminazione hanno costituito il tentativo di separarsi da lei. Livia viveva sentimenti conflittuali nei confronti della madre. L’emozione cosciente dominante sembrava essere l’odio, che celava una difficoltà verso una separazione psichica che portasse all’esistenza della mente di Livia come entità separata da quella della mamma. L’aggressività di Livia che non era stata integrata con affetti positivi e che sentiva come distruttiva, non poteva essere indirizzata verso quella madre per la quale già nutriva sentimenti di odio, ma veniva invece espressa in una modalità retroflessiva su di sé, lasciando un vuoto emotivo nella relazione con quella madre dalla quale non si sentiva amata.

Durante il processo terapeutico perseguimmo l’obiettivo di integrare i vissuti di amore e di odio nei confronti della madre e di poter sperimentare verso di lei una forma di aggressività finalizzata alla separazione psichica.

La capacità di esistere per sé come individuo passò attraverso, oltre che al reggere sotto al silenzio in seduta, al raggiungimento dell’obiettivo di riuscire ad andarsene facilmente dalla stanza della terapia e a sentirsi intera ogni volta che si separava anche solo momentaneamente da qualcuno.

Le indagini sulle bulimia riportate in letteratura (Palazzoli, 1961) hanno posto l’accento anche sulle dinamiche familiari, individuando nelle clienti bulimiche il paziente designato, come se esse fossero le portatrici di tutta l’avidità e l’impulsività della famiglia, e se il risultante equilibrio omeostatico si basasse sul mantenere l’attenzione sulla figlia “malata” piuttosto che sui conflitti nei o tra i genitori.

I risultati di tali ricerche e le successive interpretazioni mi rimandarono ai racconti di Livia relativi alla distanza e alla scarsa comunicazione tra i genitori, ai racconti in cui la madre rivolgeva richieste al padre attraverso sua figlia, alla storia del rapporto tra lei e suo padre.

Volendo allargare le mie ipotesi cercando nessi con la teoria edipica e i suoi sviluppi, trovai altre ricerche sull’argomento (Palazzoli, Cirillo e Sorrentino, 1997), i cui risultati sostengono che i padri delle clienti bulimiche spesso si occupano della figlia solo formalmente, con loro non intrattengono un vero contatto emotivo, ma il legame si esprime attraverso un impegno supportivo nei confronti della figlia, che indirettamente va a rinforzare la conflittualità presente tra madre e figlia. D’altra parte la madre spesso se ne occupa come estensione narcisistica dei propri bisogni, e la figlia in parte introietta e in parte rifiuta questa relazione, alimentando quella lotta interna tra la spinta individuativa che proprio in virtù del conflitto, assume connotati distruttivi e aggressivi sul corpo, e la tendenza alla simbiosi materna. La teoria junghiana sembra spiegare queste dinamiche nei termini di costellazione di complessi, come quello materno, come disfunzione del processo di differenziazione e di individuazione (si veda pag. 34).

L’ipotesi che in questa sede sostengo è che il comportamento tipicamente bulimico di Livia abbia costituito una concretizzazione dei meccanismi di introiezione-proiezione delle relazioni oggettuali. Questa strategia di gestione dell’aggressività, in quanto basata su scissione, diniego e proiezione, ha dato come esito un senso di amore per sé stessa assai instabile, che l’ha portata a ripetute crisi di abbuffata-espulsione.

Nel corso del processo terapeutico Livia iniziò ad anelare al sentirsi sana, energica e libera, e più tardi contattò il desiderio di essere vista come tale. Gradualmente riconobbe quella sua convinzione radicata nel corpo, nelle emozioni e negli atteggiamenti, di essere “malata”.

La sua spinta individuativa, che la portò a sganciarsi dal ruolo di paziente designata, la portò anche ad allontanarsi dalla relazione affettiva con Damiano nella quale, al fine di perpetuare una relazione di dipendenza, aveva rivestito lo stesso ruolo. Con lui si sentiva malata, e quando iniziò a integrare la rabbia con l’amore, l’aggressività con la dolcezza, a riconoscere nuovi bisogni e a canalizzare l’aggressività per soddisfarli, il circolo di dipendenza si ruppe.

La scissione di Livia era presente a vari livelli, e così i tentativi di compensazione a questa scissione si manifestavano attraverso diverse difese che nel tempo divennero rigide e disfunzionali.

Il confine che Livia poneva tra sé e l’ambiente era apparentemente invalicabile, ma era fragile al punto che nei momenti di discontrollo esso si dissolveva nella confluenza con gli altri o con gli stimoli esterni. La confluenza, che impedisce il confronto sociale e il contatto autentico con l’ambiente per l’assenza del confine di contatto, fa in modo che il sé perda la propria identità. Secondo la teoria della Gestalt è possibile che il paziente bulimico sperimenti questa mancanza del sé e della propria identità e per compensarla inizi ad ingoiare tutto ciò che trova, con la speranza di poter ripristinare ciò che in quel particolare momento di dolore, di frustrazione, o di abbandono alle proprie emozioni ingestibili, è andato perduto o risulta mancante.

E’ come se nella confluenza, sentendosi completamente invasa dall’ambiente, Livia si sentisse un tutt’uno con quest’ultimo, in una sorta di “fusione” caratterizzata da una mancanza di consapevolezza che rendeva difficile la riconquista del confine di contatto, e il ritrovamento della sua identità personale contrassegnata dalla singolarità e dalla differenza.

Durante l’abbuffata, il cui scopo reale sembrava essere il riempimento del sentimento di vuoto, Livia perdeva la consapevolezza di quello che stava facendo. Palazzoli sostiene che durante le abbuffate la velocità di introiezione è talmente elevata che a causa della gran quantità di oggetti-cibo assunti, non è possibile una corretta masticazione (distruzione e destrutturazione), impedendo di distinguere tra gli oggetti buoni e quelli cattivi, bloccandone l’assimilazione.

Se durante l’abbuffata Livia sperimentava la sensazione di perdita di controllo, nei momenti immediatamente successivi cercava di ripristinare l’energia, e così il controllo di sé, delle proprie sensazioni e dell’ambiente, vomitando quell’ “in più” che aveva introiettato.

La posizione iniziale di ambiente che contiene e che entra in contatto con l’organismo veniva ribaltata: era l’organismo che dava all’ambiente i propri contenuti. Il vomito indotto volontariamente sembra essere stata una manifestazione aggressiva verso le figure di attaccamento e di riferimento dalle quali non si è sentita accettata e riconosciuta.

In questo circuito vizioso, fatto di abbuffate e repentini “svuotamenti”, c’è una ricerca della propria individualità, c’è stato il desiderio di essere voluta e apprezzata per com’ è, e il desiderio del riconoscimento e accettazioni delle sue parti più arcaiche, delle sue funzioni inferiori, della sua parte Ombra ( tema che approfondirò a pag. 35).

I processi qui descritti avvenivano cercando di soddisfare i bisogni attraverso il proprio corpo: Livia retrofletteva quell’aggressività potenzialmente distruttiva, che se integrata avrebbe potuto essere la manifestazione del processo d’individuazione che l’avrebbe portata a superare la simbiosi e la confluenza con la madre, facendosi invece portatrice di immagini di rifiuto e di distruzione di sé e della madre. Secondo Perls, Hefferline e Goodman, nella bulimia è presente una soddisfazione appartenente alla “propria mano aggressiva” ( Perls, Hefferline e Goodman “Teoria e pratica della terapia della Gestalt”, Astrolabio, 1997), mano che nel caso di Livia è doppiamente aggressiva: prima riempie bruscamente e poi, con modalità brutali, svuota.

Durante le abbuffate l’ambiente veniva inglobato dalla paziente in modo ingovernabile, da cui risultava la percezione di una totale perdita di autocontrollo. Questa sensazione la portava a isolarsi dall’ambiente, ad evitare un contatto pieno, con egotismo, nelle relazioni, e a odiare le figure simbolicamente implicate in questo processo. L’odio provato aumentava in Livia la sensazione di essere “malata”, disordinata e discontrollata.

La perdita di controllo sperimentata da Livia veniva compensata circoscrivendo gli atteggiamenti ormai consolidati e abitudinari, per “regolare la quantità della spontaneità” (Ginger Serge, “Terapia del contatto emotivo”, Edizioni Mediterranee,2004, pag. 252) attraverso l’ esercizio del controllo deliberato.

La spontaneità (intesa come capacità di interagire con l’ambiente in modo flessibile creando dei contatti pieni, adottandosi creativamente all’incontro con gli altri e con l’ambiente) è spesso indice di una buona interiorizzazione delle antiche rappresentazioni createsi durante le prime interazioni con la madre o con il caregiveer, di un integrazione tra le rappresentazioni “cattive”, aggressive e “buone”, amorevoli.

Jung sostiene che la madre ha sempre una parte attiva nell’origine del disturbo, in particolare nelle nevrosi infantili o in quelle la cui la prima manifestazione avviene negli anni dell’infanzia. Quando è disturbata la sfera istintuale del bambino, si costellano gli archetipi, i quali si frappongono come elemento estraneo e spesso ansiogeno tra il figlio e la madre. L’archetipo della madre costituisce il fondamento del complesso materno che nel caso di Livia appare come un complesso materno negativo, di difesa contro la madre. Scrive Jung “questo tipo di figlia sa esattamente quel che non vuole, ma non riesce a decidere quale sarà il suo destino” ”(C.G. Jung, Opere 9: Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, 2008, pag. 91 ).

Livia sapeva con certezza quel che non voleva e ciò che odiava (tutto ciò che le ricordava sua madre), ma riconobbe di provare molto disagio nei momenti di scelta relativi alla progettualità più o meno a lungo termine. Durante il processo terapeutico venne a contatto con quella scarsa fiducia nelle proprie sensazioni e intuizioni, che la portava a compiere scelte impulsive che parevano essere funzionali per prestarsi al giudizio della madre. Più volte emerse come molta della sua energia psichica fosse concentrata nell’odio e nel rifiuto delle immagini materne. Ad esempio, davanti a ogni scelta faceva in modo di non prendere quella che ipoteticamente avrebbe scelto la madre. Nei termini della teoria Junghiana, c’era un complesso a nucleo affettivo costellato da immagini, il cui tema comune e conduttore era la madre.

Scrive Jung “i suoi istinti sono tutti concentrati sulla madre in forma di difesa; e pertanto non le consentono di costruirsi una vita sua propria. […] Dalla difesa contro la madre la figlia a volte sviluppa spontaneamente la sua intelligenza così da potersi costituire una sfera in cui la madre non abbia posto. […] Ciò che tale sviluppo si promette è di infrangere il potere materno attraverso la critica intellettuale e la superiorità della conoscenza, ovvero di rinfacciare alla madre ogni sciocchezza, errore logico, lacuna culturale” (C.G. Jung, Opere 9: Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, 2008, pag. 91 ).

Per una donna con questo tipo di complesso materno, come Livia, il rapporto con il maschile, con l’animus, è inizialmente secondario: quel che interessa alla paziente è distaccarsi e differenziarsi il più possibile dall’immagine materna, con la conseguenza di assumere spesso caratteristiche maschili. Il rapporto con il maschile serve di sovente a sfuggire alla madre, attirandolo, “gettando allo spirito maschile ponti dei quali egli può servirsi per trasportare sicuro sull’altra sponda i suoi sentimenti […] infonde fiducia nell’uomo, elemento da non sottovalutare, che manca più spesso di quanto si creda nella relazione uomo-donna” ( C.G. Jung, Opere 9: Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, 2008, pag. 99).

Gli uomini della vita di Livia (il padre, Damiano ed Elio) strinsero un legame di complicità collusiva e di dialogo intellettuale con lei. Il rapporto con il padre, caratterizzato da forma di dipendenza, non potè svilupparsi oltre l’adolescenza, quando questo legame edipico fu scoperto e condannato dalla madre. Livia visse così l’interruzione improvvisa di questo rapporto, prima di riuscire a dialogare con il suo Animus. Tutte le sue energie erano tese a negare la dipendenza materna, e il padre supportò questa dinamica.

Durante il processo terapeutico mise in discussione il rapporto con Damiano, portatore di una dinamica di dipendenza che stava per compiersi fino in fondo.

In un momento in cui stava vivendo all’apice il conflitto che più tardi l’avrebbe portata all’integrazione delle parti maschili con quelle femminili, visse fino in fondo la sua parte maschile, scegliendo di non spostarsi dove stava il fidanzato, ma optando coscientemente per le sue possibilità lavorative, invece che per il rapporto con un uomo come mezzo per distaccarsi dalla madre. Questa via conduceva da una parte alla rinuncia di un ruolo femminile accanto a Damiano, ma dall’altra al contatto pieno con i suoi bisogni e con la sua aggressività, spianando la strada per un radicamento, per la nascita di nuove potenzialità propriamente femminili.

La parte di sé che Livia sembrava disconoscere e non accettare, possedeva in parte certe caratteristiche che descriveva in sua madre, e in parte caratteristiche tipicamente materne e femminili.

La parte Ombra della paziente era in stretta connessione con l’immagine dell’Anima. Livia sembrava fuggire da tutto ciò che richiamava la fertilità, il contenimento, la relazionalità e il nutrimento.

Citando Galimberti, il quale sostiene che “la gola, presente anche tra i vizi capitali, è un richiamo alla nostra animalità, è un retaggio della nostra antica condizione” (Galimberti U., I Vizi capitali ed i nuovi Vizi, Feltrinelli, 2003, pag. 49), mi riallaccio alla concezione junghiana di Ombra, la quale è costituita da ciò che nel corso della storia sia filogenetica che ontogenetica è stato rifiutata dall’Io, dominato dalle funzioni superiori, mentre nell’Ombra agisce la funzione inferiore. I fenomeni psicopatologici associati all’alimentazione –i disturbi del comportamento alimentare– hanno a che fare con i vissuti più profondi del nostro esistere, con la percezione ancestrale e unica del nostro Sé. L’alimentazione ci lega ai nostri retaggi primordiali e ci accomuna agli altri animali. Livia, dapprima tentando di esercitare un controllo assoluto sul suo corpo, sulla sua fiscità, su ciò che è più antico filogeneticamente, aveva rifiutato il cibo, ma quando questa negazione non poté più essere sostenuta, emerse dall’ombra un comportamento alimentare aggressivo e distruttivo, come se quella parte di sé rifiutata avesse, in virtù del rifiuto, acquisito più forza e più violenza, come se rifiutando di nutrirsi fosse passata al divorare.

L’archetipo della madre, sia secondo la teorizzazione junghiana sia secondo la letteratura sull’alchimia, assume molte forme. Le proprietà più tipiche sono il “materno”: con significato positivo è ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; con significato negativo è ciò che divora, seduce, intossica. I poli estremi di questi attributi sono la “madre amorosa” e la “madre terrificante”. Le condotte alimentari di Livia e il relativo vissuto fortemente egodistonico erano indice di un conflitto interno e profondo tra le rappresentazioni personali di queste immagini archetipiche. Nel corso della terapia il conflitto si acuì fino a che intervenne la funzione trascendente che, gradualmente, portò all’integrazione di parti scisse della personalità di Livia. Quando la guerra alla madre perse di potenza e il campo di battaglia si liberò, Livia trovò un deserto. Se l’obiettivo terapeutico principale iniziale era quello di uscire dal circuito delle sue distruttive condotte alimentari, il nuovo obiettivo che stabilimmo in quel momento, dopo essersi riconciliata con sé e simbolicamente con la madre, fu quello di scoprire sé stessa, di scoprire i suoi desideri, di riuscire a godere delle piccole e semplici cose, come stare da sola in una stanza a leggere un libro.

Il prossimo passo della terapia consisterà nel consolidamento della sua parte femminile, materna, nell’esplorazione della sua Anima, e nel recupero di un rapporto e di un dialogo con il maschile, che fino ad ora aveva richiamato a sé attraverso una comunicazione razionale, utilizzando quasi esclusivamente la funzione per lei superiore del pensiero e assumendo il ruolo della paziente designata, instaurando e perpetuando così rapporti di dipendenza.

Concludo questo capitolo con un esemplare riflessione di Jung: “ Ero sopraffatto dalla sterilità infinita di questo deserto. Anche se qui qualcosa avrebbe potuto attecchire, vi mancava la forza creativa del desiderio. Ovunque ci sia la forza creativa del desiderio germoglieranno i semi propri di quel terreno […] Per trovare la propria anima, gli antichi andarono nel deserto. Si tratta di una metafora. […] si recarono nella solitudine del deserto per insegnarci che il luogo dell’anima è un deserto solitario. Lì ebbero visioni in abbondanza, i frutti del deserto, i fiori strabilianti dell’anima.” ( C.G. Jung, Il Libro rosso, Bollati Boringhieri 2010, pag. 236)

Riflessioni del terapeuta

Il caso clinico di Livia è un esempio di come il progresso della terapia si mostri attraverso l’alleanza terapeutica. Il cambiamento di Livia si è palesato innanzitutto nella modalità relazionale che portava in seduta. Ciò che qui sostengo non è una riflessione intorno all’alleanza come indice predeterminato da analizzare per verificare l’andamento del caso, quanto piuttosto la descrizione di un campo comune dinamico che si è sviluppato ed è cambiato nel corso del tempo. La relazione tra me e Livia è stato un elemento di movimento chiaro e che è stato presto esplicitato in seduta: inizialmente la relazione tra noi era costellata da una distanza tale da impedire l’emergere di un terreno comune (rotture di ritiro). Più tardi si sono verificati degli attacchi diretti (rotture di confronto) da parte di entrambe nei confronti della terapia come segnale più forte e più chiaro che il lavoro non poteva proseguire senza porre l’attenzione sulla dimensione interattiva della terapia. “E’ a partire dall’analisi dello sviluppo, delle rotture e delle riparazioni dell’alleanza, che il terapeuta può sperare di innescare un processo di cambiamento nel paziente. […] L’alleanza è il punto di partenza per una nuova consapevolezza del paziente e per un suo cambiamento. L’impasse terapeutica viene considerata un utile finestra sul mondo soggettivo del paziente.” (Lingiardi V. “L’alleanza terapeutica”, Raffaello Cortina Editore, 2002, pag. 60)

Spesso Livia negava emozioni evidenti e rispondeva in modo succinto alle mie domande di largo respiro. Si verificò una fase particolare, all’incirca verso gli otto mesi della terapia, in cui Livia esprimeva spesso sentimenti negativi nei miei confronti per mezzo del sarcasmo e alludendo a problemi presenti nella relazione terapeutica indirettamente, esclusivamente facendo riferimento a relazioni con persone indefinite. In questo periodo sentii spesso vacillare la mia capacità di gestione delle emozioni che scaturivano da questi ritiri e da questi attacchi. Tutto ciò fu utile per porre l’accento su ciò che stava accadendo tra noi e per riuscire a intravedere nella difficoltà delle finestre relazionali. Io reagivo ai suoi ritiri con impazienza, guidando Livia nella scelta degli obiettivi e dei compiti ma senza assicurarmi che fossero da lei compresi e condivisi: emerse la mia parte controllante, come se il suo controllo che ancora non si permetteva di esprimere direttamente in seduta avesse trovato una buona corrispondenza con il mio mondo interno, portandomi a relazionarmi con lei come lei faceva con sé stessa. Inoltre, quando iniziò ad attaccarmi attraverso la svalutazione della terapia e del mio ruolo, sentivo insicurezza e inadeguatezza, che si trasformava poi, quando Livia usciva dalla stanza del colloquio, in una sensazione di fastidio, di disprezzo e di insofferenza nei suoi confronti. Nella seduta successiva il mio fastidio sfociava in un atteggiamento distaccato e poco empatico attraverso cui mi rivolgevo a lei con commenti intellettuali ma superficiali. In questi frangenti emergeva quella mia parte maschile che nella mia storia personale è stata funzionale per sostituire la parte femminile materna che, in un modo simile a Livia, avevo per molto tempo rifiutato e ripudiato. Nutrivo nei confronti di Livia quello che lei sentiva per sua madre. Tutto ciò mi poteva sembrare un ostacolo, una difficoltà, un peso, ma quando mi spostai da una prospettiva di riconoscimento personale a una prospettiva analitica, in cui queste dinamiche di identificazione proiettiva acquisirono il senso di strumenti utili per accrescere la mia comprensione di Livia, la relazione cambiò.

Una volta identificatomi con quelle parti che Livia proiettava nella relazione, e una volta comprese all’interno della nostra matrice relazionale, ne presi le distanze arrivando a vedere la situazione dall’alto, come se osservassi l’insieme della terapia dall’esterno, per poi “ricalarmi” nella relazione con il mio ruolo e con confini più definiti, più stabili e in questo modo più flessibili, che mi permettessero di riconoscere Livia nella sua interezza e complessità.

Concretamente riuscii a riaccordarmi con lei sugli elementi costitutivi della terapia che fino a quel momento erano stati sottovalutati e che forse io avevo stabilito in modo poco chiaro, come il pagamento e la frequenza. Potemmo così lavorare sulla sua assunzione di responsabilità in merito alla scelta di svolgere la terapia e di lavorare insieme a me per un suo cambiamento e una sua crescita.

Livia passò da un atteggiamento distaccato, svalutativo e ostile, al manifestare una profonda capacità riflessiva e una collaborazione attiva. Verso l’ultimo periodo, rispetto al momento di stesura del presente lavoro, riuscì ad esplicitare spontaneamente la sua motivazione alla terapia e il suo riconoscimento nei miei confronti come figura da un lato affettiva e supportiva, e dall’altro come terapeuta impegnata nel capire e nell’indicarle una strada, a tratti faticosa, verso il cambiamento.

Bibliografia e Sitografia

  • Edinger F.E. “ Anatomia della Psiche”, Vivarium, 2008
  • Gabbard Glen O., “Psichiatria Psicodinamica”, Raffaello Cortina Editore, 2002
  • Galimberti U., I Vizi capitali ed i nuovi Vizi, Feltrinelli, 2003
  • Ginger Serge, “Terapia del contatto emotivo”, Edizioni Mediterranee,2004
  • Jung C.G., “Il Libro rosso”, Bollati Boringhieri, 2010
  • Jung C.G., “Opere 9: Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, Bollati Boringhieri, 2008
  • Jung C.G., “Tipi psicologici”, Grandi Tascabili Economici Newton, 2008
  • Lingiardi V, “ L’alleanza terapeutica”, Raffaello Cortina Editore, 2002
  • Lowen A., “Il Piacere”, Casa Editrice Astrolabio, 2000
  • Mc Williams N. “ La diagnosi psicoanalitica”, Casa editrice Astrolabio, 1999
  • Palazzoli Selvini M. “L’anoressia mentale”, Feltrinelli, 1963
  • Palazzoli Selvini M., Cirillo M, Sorrentino A. “Ragazze anoressiche e bulimiche: la terapia famigliare”, Cortina , 1998
  • Perls, Hefferline e Goodman, “ Teoria e pratica della terapia della Gestalt”, Astrolabio, 1997
  • Sedgwick D. “Il Guaritore Ferito”, Vivarium, 2001
  • Winnicott D.W., “La capacità di essere solo. Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo”, Armando Edizioni, 1974
  • www.labirintoermetico.com
  • www.psycnet.apa.org/index.cfm?fa=search.displayRecord&uid=1997-07483-001
  • www.psiconline.it/article.php?thold=3&mode=nocomments&order=0&sid=9553